Roma, 6 Giugno 2018
Negli ultimi anni numerosi studiosi sono tornati a riflettere sulla crisi della democrazia e sulla crisi della rappresentanza. Tutto lascia pensare in effetti che il sistema rappresentativo viva un momento di difficoltà: riemergono da più parti istanze politiche di disintermediazione, le tradizionali guarentigie del parlamentarismo sono messe in discussione, sfiducia e risentimento collettivo sembrano caratterizzare ciò che Luigi Lacché ha efficacemente definito una “melancolia costituzionale”.
A dire il vero la critica non è nuova alla riflessione e anzi accompagna la nozione moderna di rappresentanza da che è stata messa a punto. Più che di “crisi” occorrerebbe forse esprimersi allora in termini di “transizione”.
Ai tempi delle rivoluzioni atlantiche era chiara la distinzione tra democrazia e sistema rappresentativo, essendo questo considerato come il governo della sanior pars. Non esisteva la nozione di “democrazia diretta”. I giacobini impiegavano al più la formula di démocratie absolue. Si era invece consapevoli del fatto che la democrazia avesse bisogno di riduttori per potersi sviluppare: riduttori come la rappresentanza.
Gli Stati Generali del 1789 segnarono il passo determinando il superamento del modello di rappresentanza di Ancien Régime. In un clima oscillante tra volontà di rigenerazione e spirito di conservazione dell’ordinamento, emerse l’urgenza di riforma e di sperimentazione di forme giuridiche ancora ignote, prima fra tutti una rappresentanza senza mandato imperativo. Si ricorderà infatti che le “elezioni” in Europa sotto l’Ancien Régime si caratterizzavano per un corpo elettorale di rappresentanti delle comunità – non di cittadini titolari di diritti – e per eletti portatori di un mandato definito. In altri termini l’elezione del portatore dei cahiers de doléances – che costituivano il perimetro del mandato – era considerata come secondaria rispetto alle lamentele stesse.
È lecito chiedersi quanto fosse vincolante il mandato nella pratica effettiva. Come avanzato da Paolo Alvazzi nel corso della discussione, i cahiers avevano un carattere eminentemente pragmatico: si trattava di portare al re istanze amministrative e comunque locali. A dire il vero però, le lamentele contenevano infatti segnalazioni circoscritte ma anche questioni di ordine generale relative all’organizzazione politico-giuridiziaria, agli affari ecclesiastici, alla legislazione penale e civile, tanto da preannunciare un diverso paradigma. Certo è che i cahiers de doléances svolsero un ruolo decisivo nella politicizzazione della società.
Emblema della riflessione rivoluzionaria fu sicuramente Sieyès, autore di una posizione di estrema chiarezza: occorreva espropriare il re della rappresentanza organica della Francia e fondare la rappresentanza nazionale sul Terzo Stato. Quanto al mandato, gli era chiaro che il governo rappresentativo incarnava il contrario di uno stato democratico e che il rifiuto di un mandato imperativo equivaleva al ripudio di un controllo del popolo sugli eletti. Si legge in un suo discorso:
“(..) la France n’est point, ne peut pas être une démocratie; elle ne doit pas devenir un Etat fédéral, composé d’une multitude de républiques, unies par un lien politique quelconque. La France est et doit être un seul tout, soumis dans toutes ses parties à une législation et à une administration communes. Puisqu’il est évident que 5 à 6 millions de citoyens actifs, répartis sur vingt-cinq mille lieues carrées, ne peuvent point s’assembler, il est certain qu’ils ne peuvent aspirer qu’à une législature par représentation. ”.
Nel Settembre 1789 l’istituto di Ancien Régime ha già un senso nuovo.
Più ambiguo fu un altro autore del tempo, il Conte d’Antraigues. Fuggito a tempo dal paese, passò presto nelle schiere della controrivoluzione. Nel 1789 aveva firmato un saggio in difesa del mandato imperativo a partire dall’idea che il popolo dovesse mantenere un controllo sui deputati. Sosteneva più precisamente che per garantire la sovranità – incarnata dal Re – fosse necessario mantenere i deputati alla dipendenza dei loro committenti.
Le sue idee vennero riprese da parte giacobina. Basti menzionare Hérault de Séchelles, giurista giacobino e già presidente del Parlamento di Parigi, autore del progetto di costituzione montagnarda. E ancora Condorcet, autore di un progetto di costituzione quasi identica. Per entrambi lo strumento di controllo dei deputati andava ravvisato nel ricorso alle assemblee primarie sulla scorta di due idee fondamentali. Primo: occorreva delegare i poteri quanto meno possibile. Secondo: l’azione del legislatore doveva essere sottoposta a controllo sia dall’alto che dal basso.
La fantasia giacobina non ebbe la meglio, al contrario si affermarono i termidoriani. Un aneddoto esemplare può aiutare a chiarire. Nel 1795 un oscuro deputato della Convenzione propone di sostituire il popolo reale – presente alle discussioni in segno della legittimità dei rappresentanti – con un trompe l’oeil, una rappresentazione simbolica. In quegli stessi anni inizia l’involuzione della rappresentanza: il popolo ideale viene investito della sovranità, il popolo reale viene relegato a una proiezione ottica. Più tardi nel XIX secolo sarebbe divenuto frequente l’uso della sineddoche: i sober men di John Adams per rappresentare l’intera società. Come è naturale, nel quadro censitario dello Stato monoclasse il problema rappresentativo poteva considerarsi inesistente.
Ci si è chiesti in discussione se fosse presente alla riflessione rivoluzionaria la questione della competenza per il ruolo, come fu già la peritia nel governo i medievali. Secondo Fioravanti, il problema delle “competenze” emerse con grande intensità nel XIX secolo, laddove si contestava l’idea che in politica il rappresentante dovesse avere una caratteristica in più rispetto alla sua qualità di semplice cittadino. Quanto al periodo rivoluzionario, occorre osservare che la competenza non costituiva in alcun modo un elemento di legittimazione. Si pensi al giacobino Barrère che propose di sottoporre il progetto di Costituzione a tutti i cittadini francesi, “incompetenti” o meno che fossero, così da ricondurre il circuito democratico sempre e soltanto al popolo.
Ad ogni modo non è un caso che gli istituti del mandato imperativo e della revoca degli eletti vengano impugnati nelle fasi di grande trasformazione. L’istanza riemerse durante la Comune per essere poi imbracciata dai radicali della Terza Repubblica. In momenti più bui furono i regimi dittatoriali a sublimare le istanze di riforma in una proposta antidemocratica. Ai tempi del “parlamentarismo nero”, anche Antonio Gramsci si interrogò a fondo su quanto fosse democratica la rappresentanza, arrivando a formulare il problema della democrazia nei termini della decisione e della responsabilità. Lontano da qualsiasi spontaneismo, con in mente i soviet e i consigli di fabbrica, sostenne sempre che la decisione dovesse pendere dalla parte del rappresentato. La mediazione sulle istanze sarebbe stata affidata al moderno Principe, il Partito, a suo modo un polmone democratico all’incrocio dei bisogni reali e della rappresentanza.
Eclissata l’esperienza dei partiti, cardinale della riflessione dei costituenti italiani (Virga, Mortati), pare allora riemergere il sommerso. Responsabilità degli eletti, controllo dal basso e competenza del rappresentante, tornano al centro del discorso politico e restituiscono spesso un’eco conosciuta.
Titoli richiamati in introduzione
MANIN, Bernard. Principi del governo rappresentativo. Il mulino, 2010
ROSANVALLON, Pierre. La contro-democrazia. La democrazia nell’era della diffidenza. Ricerche di storia politica, 2006, 9.3: 289-302
LASKI, Harold J. Democracy in Crisis (Works of Harold J. Laski). Routledge, 2014
Testi allegati in consultazione
Marco Fioravanti, Per un lessico giuridico della trasparenza. Pubblicità e segretezza in Francia tra Ancien Régime e Rivoluzione PDF
Mémoire sur le mandat impératif par le C.te d’Antraigues, 1780-1795 PDF
Hérault de Séchelles, Convention nationale. Projet de constitution du peuple français, 1793 PDF
Varlet, Projet d’un mandat spécial et impératif PDF