Panoramica
Il lavoro di Dario Internullo prende le mosse dalla revisione dell’intero corpus dei papiri documentari scritti in Italia tra il V secolo e la fine dell’VIII. I papiri sono parte di una più ampia raccolta che va dai primi documenti papiracei conservati per l’Occidente fino a quelli dell’XI secolo secolo (overview)[1].
I principali luoghi di conservazione – non necessariamente corrispondenti all’attuale collocazione – sono l’Archivio Arcivescovile di Ravenna e l’Archivio di Saint-Denis. Nella mappa che alleghiamo di seguito sono indicati rispettivamente in marrone gli archivi contenenti uno o due documenti (di norma papali), in blu i piccoli gruppi di documenti papiracei corrispondenti alle etichette annesse alle reliquie dei santi.
Per quanto attiene alle suddivisioni tipologiche dei documenti, nella tabella disponibile su questo sito è possibile rinvenire una catalogazione secondo criteri diplomatistici. La prima distinzione è quella tra documenti pubblici e privati, rispetto alla quale però risulta problematica la collocazione delle Epistolae. Vero infatti che la maggior parte dei documenti pubblici era redatta in forma epistolare, ci sono tuttavia pervenuti documenti che non rispettano i normali formalismi di cancelleria.
I documenti pubblici costituiscono sicuramente il nucleo documentario più consistente. Spiccano tra questi i Protocolli dei Gesta Municipalia ovvero i verbali delle udienze che si svolgevano all’interno delle curie cittadine. Accadeva infatti che il cittadino parte di una transazione patrimoniale presentasse alla curia il documento attestante l’operazione perché fosse registrato negli archivi pubblici. Il procedimento aveva sì ragioni fiscali ma anche di salvaguardia giuridica del bene (con qualche forzatura si potrebbe dire lo stesso dei moderni sistemi di trascrizione).
Sono pervenute ai giorni nostri le copie dei verbali che venivano rilasciate ai richiedenti: lunghi papiri divisi in colonne, redatti in scritture solenni di tipo tardo-romano. I verbali seguivano la forma del dibattimento giudiziario: una cornice fissa riportava i discorsi diretti all’interno dei quali compariva (e compare) la lettura degli stessi documenti registrati.
Questi papiri sono giunti a noi grazie agli arcivescovi ravennati che li utilizzarono come munimina per i propri beni immobili.
Merita inoltre menzione il cosiddetto Papiro Butinì, considerato tanto l’idealtipo degli atti di cancelleria dei funzionari tardo-romani quanto la matrice degli atti di cancelleria del tardo-medioevo.
Gli atti privati hanno tutti identica forma (lunghi rotoli) e non differiscono particolarmente dalle pergamene coeve degli archivi longobardi,se non per il formulario. La scrittura è tanto latina quanto gota o greca.
La terza categoria tipologica è quella degli inventari o brevia, documenti amministrativi interni.
Per quanto riguarda gli inediti infine, diversi papiri sono stati rinvenuti nelle legature dei manoscritti altomedievali ovvero nelle copertine dei libri.
Problemi sollevati sulla produzione e sulla circolazione del papiro
Ci si può chiedere anzitutto quali fossero i luoghi di produzione, conservazione e circolazione del materiale scrittorio in Occidente.
Quanto ai primi la storiografia medievistica ha voluto individuare il principale snodo produttivo nella Sicilia araba, e ciò sulla scorta di una lettura perlopiù economica. Secondo Internullo la tesi non è pienamente convincente.
Delle due fonti che sostengono la teoria pro Sicilia, la più utilizzata è una lettera di Gregorio Magno che menziona un toponimo siciliano chiamato “massa papirianensis”. Occorre ricordare però che nella maggior parte delle massae il nome non indica il tipo di produzione bensì il più importante dei fundi della massa (a sua volta derivato dal nome del proprietario). Si potrebbe quindi ipotizzare che “massa papiriensis “derivi in realtà da un tale antico Papyrius. La seconda fonte consiste invece nel resoconto di un mercante arabo della fine del X secolo che dall’Oriente visitò la Sicilia e riportò di aver trovato delle cartiere vicino Palermo. Anche in questo caso però, la prova non è decisiva. Il mercante lasciò infatti intendere che si trattava di una produzione minima, usata dall’emiro locale per i suoi atti e poco altro.
Le fonti che rimandano all’Egitto, si sostiene, dovrebbero essere più persuasive. Per convincersene bisogna anzitutto risalire a Roma e al Liber Pontificalis (la cui versione completa risale al VI secolo). Nel Liber si rinvengono infatti liste e inventari identici a quelli tenuti a Ravenna per i territori donati da Costantino a Papa Silvestro. Compaiono tra le proprietà aziende egiziane e siriache che ogni anno forniscono ai papi le decadi di carta necessarie all’amministrazione. Le fonti più tarde sembrano poi suggerire che la base del circuito produttivo del papiro sia rimasto lo stesso fino ai secoli IX e X. Valga come indizio il fatto che l’unico protocollo (o “marchio di fabbrica”) conservato accanto a un papiro occidentale – un papiro pontificio conservato in Francia – è identico, anche per grafia, a quelli rinvenuti in Egitto del IX-X, e si pone così in linea anche con l’attestazione in fonti romane di una serie di tessuti orientali arrivati nell’Urbe proprio da Alessandria [da chiarire].
Con riguardo alla circolazione, la mappatura proposta nel corso del seminario suggerisce come fino alla seconda metà dell’VIII sec. la dislocazione geografica del papiro sia stata abbastanza ampia, arrivando a toccare le aree più interne della penisola. È a partire dal IX secolo che nodi e destinazioni avrebbero cominciato a ridursi alle città costiere, meglio connesse ai traffici mediterranei.
Occorre notare che nel periodo osservato andò affermandosi la pergamena, la cui diffusione seguì traiettorie diametralmente opposte a quelle del papiro. Datano infatti della fine del VII secolo i documenti rinvenuti in Inghilterra e Francia settentrionale, zone notevolmente distanti dalle rotte mediterranee, ed è a partire dall’VIII secolo che la pergamena cominciò a raggiungere altre e diverse località europee, comprese le aree interne della penisola italiana.
L’esplosione delle fonti pergamenacee fu probabilmente dovuta a una contrazione economica. Sul punto però Emanuele Conte avanza l’idea che una spiegazione materiale possa non bastare e che anzi, possano concorrere alla scomparsa del papiro delle ragioni di tipo storico-giuridico: la scelta di una materia più costosa e resistente come la pergamena potrebbe dipendere dalla natura giuridica e dalla funzione stessa del documento che si intendeva confezionare. Domanda quindi se ci siano evidenze in tal senso.
Altra questione proposta alla discussione è quella relativa alla validità del documento nei secoli, indipendentemente quindi dall’autorità pubblica (originariamente) garante.
Dario Internullo sottolinea che il problema dell’utilità pratica del materiale scrittorio era probabilmente presente ai redattori. A testimonianza di ciò concorre il fatto che la pratica di aggiornamento dei rotoli tramite aggiunta di fogli – pratica diffusissima nella “cultura” del papiro – ha resistito al passaggio dal papiro alla pergamena, come si nota ad esempio in alcuni polittici altomedievali. Sulla seconda questione rileva anzitutto che in sede di udienza per la registrazione delle transazioni compariva la formula con cui il contraente chiedeva copia del verbale come munimen, e in secondo luogo che, soprattutto in alcune fonti merovingie nonché nei testi del corpus giustinianeo, si trova traccia di prescrizioni amministrative riguardanti il supporto (es. “sive in membranis sive in cartis”). Ne desume però più un intento derogatorio che non il segno di una consapevolezza giuridica.
Victor Crescenzi sottolinea come i verbali papiracei oggetto del lavoro siano forse l’unica testimonianza del rapporto che intercorreva tra l’atto della documentazione, la validità e l’efficacia probatoria del documento. Non risultano infatti altre testimonianze del tempo circa il fenomeno della insinuatio in gestas ovvero della notifica dell’atto ai Gesta Municipalia nella forma del procedimento contenzioso per formare quella che oggi chiameremmo la fede pubblica.
Conclusioni provvisorie
Una revisione come quella qui presentata può contribuire a rivedere anche le tesi storiche più consolidate. Si prenda ad esempio il papiro che ha ispirato la maggior parte della ricerca sulla genesi del sistema curtense senza trovare però un vero e proprio riscontro nella manualistica storiografica. Secondo la datazione di Internullo, effettuata sulla scorta di dati paleografici ed economici, il papiro rientrerebbe perfettamente nella finestra tra seconda metà del VI secolo e inizio del VII. Ciò dovrebbe portare a riconsiderare la diffusione di determinati sistemi di gestione nelle aree considerate.
Nuova luce infine è quella gettata sulla produzione documentaria pubblica a Ravenna. A partire da una nuova datazione del papiro Butinì infatti è possibile riflettere sul fatto che si tratta di un documento emesso da una cancelleria in cui, fino a pochi anni prima, erano state redatte le lettere dei re ostrogoti riportate nelle Variae di Cassiodoro. Non è un caso che il formulario del papiro e quello delle Lettere coincidano. Da qui si può forse cominciare a riflettere sulla produzione documentaria pubblica a Ravenna in maniera più generale, a cominciare dall’epoca tardo-antica per arrivare alla Ravenna vescovile.
[1] Per quanto riguarda il Corpus chi volesse farsi un’idea di tutto questo tipo di documenti si deve partire dal lavoro di Gaetano Marini di inizio ‘800 che è lo studio più ampio in assoluto finora. E poi tramite il lavoro di alcuni diplomatisti in particolare Leo Santifaller. L’edizione di riferimento rimane a tutt’oggi quella dello svedese J.O. Tjäder, edizione che è stata poi revisionata e ripubblicata nelle carte latine antiquiores. Negli ultimi anni una serie di storici e diplomatisti ha allargato ancora di più il corpus perché si è messa a studiare e individuare dei documenti che non sono pervenuti in originale ma sono copie su pergamene più tarde di papiri più antichi.
ABSTRACT E SINOSSI DEI TESTI (PDF)