La presentazione di Marta Cerrito fa parte di una ricerca più ampia relativa alle transazioni criminali così come disciplinate, interpretate ed usate nel Regnum Siciliae a partire da Federico II (Liber Augustalis) sino alla promulgazione del rito alfonsino del 1446. L’indagine intende individuare se ed in quale misura un ordinamento giuridico e politico profondamente diverso da quello comunale, quale quello meridionale, mantenga in capo ai soggetti privati un margine di autonomia nella risoluzione delle controversie criminali.
Quale valore attribuire alla volontà delle parti private in relazione alla procedura di composizione dei crimini vigente nel Regnum Siciliae citra Pharum?
Occorre porre l’accento su una fondamentale differenza normativa tra il regno ed i comuni medievali per i quali la fonte di riferimento è la costituzione dioclezianea contenuta in C. 2.4.18. Secondo la lege Transigere era possibile pacificarsi in tutti i casi relativi ai delitti, cosiddetti atroci, che comportavano una poenam sanguinis (fatta eccezione per il caso di adulterio) mentre in tutti gli altri casi non era possibile salvo il caso di falsi accusatio. Del tutto diversa sia sul piano procedurale sia su quello sostanziale era invece la disciplina vigente nel regno a partire dall’epoca di Federico II. Nel Regno era, infatti, possibile comporre solamente nei casi relativi ai crimini più lievi, ma era necessario ottenere una licentia curiae del magistrato investito del giudizio. In altri termini la composizione era concepita come uno strumento nelle mani del magistrato il quale poteva scegliere se comporre o meno il crimine. La valutazione non era arbitraria bensì orientata dalla normativa sovrana in riferimento a due parametri principali: la qualità del delitto e le caratteristiche delle parti.
La normazione angioina è, invece, caratterizzata da una scarsa generalità dal momento che era principalmente votata ad interventi occasionali. All’interno della normazione occasionale angioina si colloca uno strumento di particolare importanza: le lettere arbitrali (literae de arbitrio o arbitrales). Le literae de arbitrio erano dispacci che il sovrano inviava, su richiesta, ad ufficiali regi così da porre fine a particolari disordini e problemi locali generalmente attinenti alla repressione criminale. Inviando tali lettere, il sovrano concedeva eccezionalmente e per un limitato lasso temporale, al magistrato cui la lettera era diretta, la facoltà di gestire l’inquisitio e di giudicare secondo il proprio arbitrio ultra et contra legem. Tali disposizioni hanno avuto particolare fortuna tanto da esser state tramandate, nelle edizioni a stampa dei capitoli angioini, come norme di portata generale ed essere state, di conseguenza, utilizzate ben oltre i limiti per i quali erano state promulgate. La lettera Exercere volentes è forse la più nota di queste e concedeva ai magistrati adìti di comporre ben oltre i limiti imposti dall’ancòra vigente Liber Augustalis.
Il ricorso allo strumento compositivo nel Regnum Siciliae ha tradizionalmente rappresentato un ampliamento dei poteri del giudice in virtù di un’espressa concessione del legislatore. L’aspetto che si mostra maggiormente interessante è quello relativo al rapporto che intercorre tra pena ed arbitrio dal momento che in questo caso l’arbitrium iudicis riguarda l’arbitrium componendi ossia l’ampliamento della facoltà del giudice di decidere se comporre con le parti e, nel caso, in che misura commutare o rimettere la pena. Tale ricorso allo strumento compositivo si inserisce all’interno di un fenomeno giuridico ben più ampio che la dottrina di diritto comune ha definito come “clausulae diminuentes iuris ordinem”, categoria all’interno della quale confluiscono numerosi e variegati strumenti giuridici che, usati singolarmente o in modo combinato, hanno rappresentato le fondamenta per la teorizzazione di un modello processuale alternativo a quello ordinario. Una clausula è qualunque strumento giuridico che autorizzi il giudice a modificare, secondo il proprio arbitrio, l’iter processuale così da facere iustitiam in maniera più rapida ed efficace. Stando dunque a tale lettura e non essendo le clausulae tassativamente elencate, non si ritiene eccessivamente ardito inserire la compositio de crimine nel novero delle clausulae diminuentes iuris ordinem.
Le lettere de arbitrio in questione erano indirizzate non solo agli ufficiali regi, ma anche ad alcuni potenti feudatari ai quali il sovrano aveva concesso il mero ac mixtum imperium. Il mero e misto imperio rappresentava il privilegio più ambito, sia in senso sociale sia politico, in quanto consisteva nel diritto di amministrare la giustizia, tanto civile quanto penale, sui propri vassalli e nel territorio di propria competenza. Tale privilegio non aveva natura territoriale, bensì personale e, per tale ragione, doveva espressamente risultare da una clausola apposta all’atto di investitura. I Baroni avevano, di conseguenza, un forte controllo sociale e giurisdizionale sul territorio e sulla popolazione, controllo che, ovviamente, concorreva con la giurisdizione regia competente nel medesimo territorio. A seguito della riunione personale delle due parti del regno, si assiste ad un radicale cambiamento della giurisdizione feudale. Alfonso d’Aragona aveva, infatti, concesso a tutti i baroni del regno l’imperium merum et mixtum nel corso del Parlamento generale del Regno tenutosi a Napoli nel 1443. Tale concessione segna giuridicamente l’inizio di un progressivo ampliamento della cognitio dei Baroni e, politicamente, l’esplicita affermazione del loro potere. Nel Regnum Siciliae, sino alla metà del XV secolo, l’attribuzione dei poteri giurisdizionali ai feudatari aveva, come si è già sottolineato, natura di beneficio. Ben presto, però, i poteri giurisdizionali connessi al feudo assumono un’importanza sempre maggiore, divenendo politicamente preminenti e, come sottolinea Matteo D’Afflitto, i feudatari si trasformano in officiales Regis in terris eorum. Inoltre, essi iniziano ad incassare il prezzo della composizione come fructus feudi ed hanno dunque un grande interesse a comporre.
Proprio in questo senso che la dottrina napoletana del primo XVI guarda alla concessione delle lettere arbitrali (in modo particolare della Exercere volentes) come l’emblema dello strapotere del ceto dei baroni e dunque le trasforma nel principale bersaglio della polemica antifeudale. Da una parte i principali esponenti della feudistica napoletana (Marino Freccia e Pietro Follerio) cercarono di teorizzare una risoluzione del conflitto di giurisdizione in favore delle curie baronali.
Al contrario, la dottrina meridionale, già a partire dal XV secolo, avvertì l’esigenza di interpretare analogicamente il dettato un antico rito contenuto nei Ritus Magnae Curiae Vicariae così da limitare il ricorso alla composizione da parte delle curie feudali. Il rito 272, rubricato De compositionibus, prevedeva la possibilità per il giudice di risolvere la controversia penale –excepto haeresis et laesae Majestatis– tramite un accordo compositivo, ma sottolineava anche, a più riprese, come tale eventualità fosse realizzabile solo qualora la parte lesa fosse concorde e, conseguentemente, soddisfatta –contenta et concordata-. La manifestazione della volontà di comporre de crimine era necessaria perché la procedura compositiva si perfezionasse in sede di giudizio, anche se la norma del Ritus non specifica quale dovesse essere la forma di detta manifestazione e neanche se essa dovesse aver luogo obbligatoriamente in sede giudiziale o se fosse sufficiente un’ostensio chartae pacis. Il carattere privatistico di questo principio tradisce inevitabilmente l’antichità di tale norma ma ciò non ostacolò, anzi favorì, la dottrina ad attingervi per porre un limite squisitamente giuridico agli abusi baronali. Tale impostazione teorica è avvalorata dalla risoluzione del caso Sagatario raccontato da Tommaso Grammatico. Tale Sagatario era imputato davanti alla Magna Curia per aver commesso ben undici omicidi in tempi e luoghi differenti ma per i quali avrebbe ottenuto l’indulto a seguito di tre diversi procedimenti conclusisi tutti per compositionem.La questione, posta al collegio, non attiene al merito ma si tratta piuttosto di analizzare la fattispecie da un punto di vista squisitamente giuridico. La sentenza emessa dal supremo tribunale del regno è contro il barone Sagatario grazie ad un ragionamento giuridico che riprende chiaramente l’impostazione promossa dalla dottrina meridionale tramite l’applicazione del rito 272 in luogo della ben nota legislazione arbitrale.
La propensione della dottrina di ius commune verso un modello procedurale di stampo inquisitorio, finalizzato alla riduzione dello spazio lasciato alla libera disposizione dei soggetti privati nel dirimere le controversie penali, parte dal presupposto per cui la dialettica politico-sociale vede contrapporsi il potere pubblico (inteso come interest rei publicae) e l’interesse privato delle singole parti alla soddisfazione economica. Nel contesto meridionale, invece, tale contrapposizione si presenta solo a livello teorico dal momento che il soggetto che si contrappone al potere pubblico-centrale non è la parte privata, bensì un soggetto solo teoricamente privato perché di fatto titolare di poteri e prerogative pubbliche: il barone. L’ostilità dimostrata nei confronti delle curie baronali da parte della dottrina meridionale, dunque, non può essere interpretata senza tener conto della molteplicità di centri di potere creati dalla concessione incondizionata del mero e misto imperio a tutti i feudatari regnicoli. Pertanto se è vero che il giurista guarda alla tutela dell’interest rei publicae, egli non può che tornare ad una rigorosa interpretazione del dettato normativo anche qualora il tempo e le disposizioni sovrane l’abbiano di fatto fortemente indebolito.
Abstract e appendice normativa